mercoledì 29 febbraio 2012

Tecnici ad alta voracità


di Marco Travaglio
   La violenza, oltre a essere sempre sbagliata, è il miglior regalo che i No Tav possano fare al partito trasversale Pro Tav: che aspetta soltanto il morto per asfaltare l’intera Valsusa e farne tre, di Tav, non solo uno. Per fortuna la manifestazione di sabato è stata l’ennesima presa di distanze del movimento dalla violenza. Non a parole (anche se qualche parola dei leader non guasterebbe, per rimediare al danno fatto con gli assalti al procuratore Caselli), ma nei fatti. Detto questo, c’è un però: gli ordini che il partito trasversale Pro Tav impartisce alle forze dell’ordine. Non sta scritto da nessuna parte che queste debbano cingere d’assedio un’intera valle, braccare i contestatori fin sui tralicci situati a casa loro (infatti si vogliono espropriare i terreni), accogliere nelle stazioni in assetto antisommossa i manifestanti reduci da un corteo pacifico. Chi dà questi ordini compie una scelta precisa: quella di provocare. La provocazione non giustifica la violenza, ma ne attenua le responsabilità: infatti il codice penale prevede l'attenuante della provocazione. Qualche settimana fa alcuni cittadini accolsero una manifestazione secessionista della Lega a Milano srotolando un tricolore: subito intervenne la Digos intimando loro di ritirarlo per non provocare i leghisti. Il mondo alla rovescia, visto che, fra la bandiera nazionale e i vessilli secessionisti, sono i secondi a essere illegali e non la prima. Però si può capire il gesto della Digos, per evitare inutili incidenti. Ora la domanda è: il dovere della polizia è evitare gli incidenti, o provocarli? Nel caso della Lega, li ha evitati. Nel caso del movimento No Tav, sembra volerli provocare. E non per colpa dei singoli poliziotti, che (eccetto quelli che aggiungono gratuitamente condotte violente, difficili da individuare e punire perché nascosti sotto i caschi) obbediscono agli ordini. Ma per colpa di chi dà gli ordini. Cioè della politica. La militarizzazione della Valsusa, a protezione di un cantiere che non esiste, dura da almeno dieci anni e accomuna centrodestra e centrosinistra. Governi politici di segno opposto, ma non sul Tav, che ha sempre messo tutti d’accordo (compresi i grandi costruttori e le coop rosse, già noti alle cronache giudiziarie). Ora però c’è un governo tecnico. Formato cioè, almeno sulla carta, da “esperti”. La domanda è semplice: con quali argomenti tecnici hanno deciso di continuare a finanziare quell’opera? Da anni si attende che qualche autorità spieghi ai valsusini e a tutti gli italiani perché mai imbarcarsi in un’opera da megalomani, concepita negli anni 80, quando ancora il modello di sviluppo si fondava su una gigantesca invidia del pene e inseguiva la grande muraglia e la piramide di Cheope. Oggi tutti i dati descrivono la Torino-Lione come una cattedrale nel deserto, inutile per il traffico merci e passeggeri, anzi dannosa per l’ambiente e le casse dello Stato. Il governo tecnico, con motivazioni tecniche, ha respinto l’assalto dei forchettoni olimpici di Roma 2020: operazione che sarebbe costata ai contribuenti almeno 5 miliardi. Il Tav, anche nell’ultima versione “low cost”, dovrebbe costarne 8: ma i preventivi, in Italia, sono sempre destinati a raddoppiare o triplicare (il Tav Torino-Milano è costato 73 milioni di euro a km, contro i 9,2 della Spagna e i 10,2 della Francia). Il gioco vale la candela, a fronte di un traffico merci e pesseggeri Italia-Francia in calo costante? Gli economisti de lavoce.info, l’appello di 360 docenti universitari e persino il Sole 24 Ore rispondono che no, l’opera non serve più a nulla. Sono tecnici anche loro, anche se non stanno al governo: tutti cialtroni? Se i tecnici di governo han qualcosa di serio da ribattere, lo facciano, dati alla mano: altrimenti i cialtroni sono loro. Rispondere, come l’ineffabile Passera, che “i lavori devono continuare” punto e basta, in omaggio al dogma dell’Immacolata Produzione, è roba da politicanti senz’argomenti. E, per come si sono messe le cose, è la peggiore delle provocazioni

mercoledì 22 febbraio 2012

C’è ladro e ladro per gli industriali di Giorgio Meletti (da "Il Fatto Quotidiano")

L’idea di Emma Marcegaglia che il sindacato protegga “assenteisti cronici, ladri e quelli che non fanno il loro lavoro” è opinabile, sicuramente offensiva ma abbastanza generica da risultare legittima.
   È sul piano della logica che la presidente della Confindustria delude. Le leggi che consentono all’azienda di famiglia di prosperare da decenni non vietano di licenziare ladri e assenteisti cronici. Alle volte l’applicazione delle leggi è imperfetta: per esempio sarebbe vietato agli operai di morire dentro gli stabilimenti siderurgici di casa Marcegaglia, per ogni tanto, purtroppo accade.
   Ma alla signora Marcegaglia piace la scorciatoia decisionista. Il garantismo vale solo per i suoi amici imprenditori e manager che anche se condannati in tribunale (ladri veri, con tanto ti timbro giudiziario) se la cavano con il solito “sono certo che l’appello ribalterà il verdetto”. Per gli operai invece deve valere la giustizia sommaria del padrone: senza l’articolo 18 sarà l’imprenditore, a suo insindacabile giudizio, a decidere chi è ladro e chi no. A che servono i giudici? Per esempio, alla Marcegaglia spa sarà l’amministratore delegato Antonio Marcegaglia, fratello di Emma, a decidere chi ha la moralità giusta per lavorare e chi no. Ma se questo sistema rapido voluto dalla presidenza della Confindustria fosse stato già in vigore quattro anni fa, chi avrebbe giudicato Antonio Marcegaglia? Sì, perché il 28 marzo 2008 l’imprenditore mantovano ha patteggiato undici mesi di reclusione (pena sospesa) per corruzione: ha ammesso di aver pagato una tangente a un manager della società pubblica Enipower per aggiudicarsi un’ambita commessa. Fermo restando che una simile impresa sarebbe stata sanzionabile con il licenziamento anche in vigenza dell’articolo 18, il precedente illumina la filosofia di casa Marcegaglia: l’imprenditore è signore e padrone della vita dei suoi dipendenti, li assume, li giudica e li licenzia. Ma nessuno può giudicare loro, i padroni, che fanno tutto da soli: delinquono, confessano, patteggiano e si perdonano. E neppure vengono cacciati dalla Confindustria.


Emma Marcegaglia: “Il sindacato non protegga ladri e fannulloni”. 
A proposito, quanti imprenditori indegni ha mai cacciato Confindustria?

giovedì 16 febbraio 2012

DA B. A DELLA LOGGIA TUTTI TIFOSI DEL POOL


MEMORIA CORTA
di Gianni Barbacetto Peter Gomez e Marco Travaglio

 I commentatori si schierano in grandissima maggioranza dalla parte di Mani Pulite. A cominciare da molti che si trasformeranno, anni dopo, in critici implacabili della magistratura. Fin dal 1992 Ernesto Galli della Loggia, editorialista prima della Stampa e poi del Corriere, definisce i partiti “combriccole di malandrini”. Aggiunge che “tutti hanno rubato”. E sentenzia: “È già molto se, dopo gli estenuanti e annosi riti giudiziari che sono in Italia la regola, dopo gli indulti, le amnistie, i patteggiamenti e gli arresti domiciliari, alla fine si riesce a mandare in galera qualcuno per un lasso di tempo non proprio ridicolo”.

   ANCOR più deciso, nell’inneggiare al pool e nell’attaccare i tangentisti, è un docente lucchese di Epistemologia, Marcello Pera, che diventerà parlamentare di Forza Italia e presidente del Senato. “Come alla caduta di altri regimi – scrive per esempio sulla Stampa il 19.7.93 – occorre una nuova Resistenza, un nuovo riscatto e poi una vera, radicale, impietosa epurazione (...). Il processo è già cominciato e per buona parte dell’opinione pubblica già chiuso con una condanna (...). La rivoluzione ha regole ferree e tempi stretti”.
   Vittorio Feltri, direttore de L’Indipendente, esulta a ogni arresto: “Ma questa è una pacchia, un godimento fisico, erotico. Quando mai siamo stati tanto vicini al sollievo? Che Dio salvi Di Pietro” (15.6.92). E quando Craxi, che lui chiama “il cinghialone”, riceve il primo “avviso”, non si trattiene: “Mai provvedimento giudiziario fu più popolare, più atteso, quasi liberatorio di questo firmato contro Craxi (...). Di Pietro non si è lasciato intimidire dalle critiche, dalle minacce di mezzo 
mondo politico (diciamo pure del regime putrido di cui l’appesantito Bettino è campione suonato) e ha colpito in basso e in alto, perfino lassù dove non osano nemmeno le aquile. Ha colpito senza fretta, nessuna impazienza di finire sui giornali per raccogliere altra gloria. Craxi ha commesso l’errore (...) di spacciare i compagni suicidi (per la vergogna di essere stati colti con le mani nel sacco) come vittime di complotti antisocialisti (...). È una menzogna, onorevole: che cosa vuole che importi a Di Pietro delle finalità politiche). I giudici lavorano tranquilli, in assoluta serenità: sanno che i cittadini, ritrovata dignità e capacità critica, sono dalla loro parte. Come noi dell’Indipendente, sempre” (16.12.92). “Non si può pretendere di guidare un partito avendo in tasca un avviso di garanzia. L’avviso di garanzia è un modo gentile per dire ‘caro mio, sei dentro fino al collo nell’inchiesta sulle tangenti’”» (20.7.92). E Marcello Pera, sulla Stampa (3.7.92): “Un ministro che, pur essendo in grado di provare la propria innocenza, si dimette per essere stato sospettato e accusato, darebbe oggi agli italiani la più efficace dose di fiducia”. (…)
   Il 29 aprile 1993 la Camera respinge quattro richieste di autorizzazione a procedere contro Craxi. Galli della Loggia denuncia 
“l’estrema gravità” del “voto parlamentare largamente assolutorio per Craxi”. E aggiunge: “Dopo quel voto è ormai chiaro che sulla scena pubblica esiste un nocciolo duro di malaffare politico e corrotta intrinsichezza con la proporzionale, che ha il suo epicentro nei due principali partiti delle vecchie maggioranze (Dc e Psi)” (…)
   I PEGGIORI accusatori di Craxi, almeno in quei mesi a cavallo fra il 1992 e il 1993, sono proprio i suoi compagni socialisti. Prontissimi a saltare giù dal carro del perdente e a giocare allo scaricabarile. Gennaro Acquaviva, capogruppo del Psi al Senato e capo della segreteria di Craxi: “Certo, per gran parte della classe politica la famiglia si è rivelata una sciagura. E non parlo solo di Craxi...” (16.12.92). Don Gianni Baget Bozzo, politologo ed europarlamentare socialista: “Craxi doveva andare a Milano e chiedere perdono. C’è una questione morale, prima che politica. 
Nel centenario del Psi, chiedere scusa per le tangenti incassate sarebbe stato un atto comprensibile” (11.9.92). Ottaviano Del Turco, segretario aggiunto della Cgil in quota Psi: “Non mi stupisco affatto dell’esistenza del partito degli affari nel Psi. Ho sempre denunciato quelli che brillano per la luce dei soldi, come Paperon de’ Paperoni” (15.5.92). E ancora: “Al congresso di Rimini del 1987 parlai contro i rampanti, gli arricchimenti facili dei compagni del partito. Un’ovazione. Il giorno dopo parlò Dell’Unto: ‘Ma che d’è ’sta questione morale? ’Sta cazzata? Certo non riguarda il Psi’. E giù applausi...” (11.2.93). Rino Formica: “I craxiani sono personaggi che non riuscivano a realizzare il socialismo e allora cercavano almeno un po’ di benessere...” (1.11.92); “Craxi si comporta da stalinista, usa metodi autoritari e dispotici” (13.11.92). Persino Bobo Craxi prende le distanze dal genitore: “Non rinnego quanto ha fatto mio padre, ma non mi sono mai considerato craxiano. Nessuno è indispensabile” (10.9.92). La sorella Stefania è costretta a replicargli: “Mio fratello Bobo è vissuto nella scia di mio padre, ha creduto che bastasse chiamarsi Craxi per fare politica e farla bene” (30.10.92). Paolo Pillitteri, cognato di Craxi, ex sindaco e ora deputato, è addirittura sdegnato: “Io la chiamerei Cupola. Sì, questo termine rende l’idea di quel che è successo fra politici e imprenditori a Milano” (3.5.92). L’ex ministro Francesco Forte, senatore, vorrebbe addirittura dimettersi da socialista: “Sono stufo di andare a comprare i giornali e sentirmi dire: ‘Ma questo non è ancora in galera?’. Mi vergogno di essere un politico e per giunta socialista” (9.7.92). Ben presto dimenticheranno tutto (…).
   Il 27 agosto 1993 i magistrati di Milano dispongono il giudizio immediato di Sergio Cusani per la maxitangente Enimont. Giuliano Spazzali, il suo avvocato, intuisce che gran parte della partita processuale si giocherà in televisione. Così, in settembre, chiede udienza a Silvio Berlusconi e va a trovarlo (“per la prima e ultima volta”, assicura) ad Arco-re. Chiede uno spazio televisivo sulle reti Fininvest per illustrare le ragioni della difesa.
   MA IL CAVALIERE sembra non capire, distratto da tutt’altri pensieri. “Non riuscii a infilare più di sei parole”, confida Spazzali agli autori di questo libro: “Berlusconi, nel suo maglioncino blu, parlò per più di un’ora e mezza, ma di tutt’altro argomento: mi spiegò che, nella stanza accanto, si stava lavorando perché c’era la necessità di rifondare le organizzazioni politiche”. Fervono i preparativi per il battesimo di Forza Italia. Ma allora nessuno se ne accorge. Epoca, il settimanale della Mondadori (gruppo 
Fininvest), offrirà ai suoi lettori due videocassette a cura del Tg5 con le sequenze più spettacolari del teleprocesso a Cusani, commentate con enfasi da Andrea Pamparana ed Enrico Mentana. Il nazionalpopolare Tv, sorrisi e canzoni pubblica una copertina con il titolo “Di Pietro, facci sognare”. Giornali e tv del Cavaliere, ormai con un piede in politica, seguitano a “tifare” Di Pietro. E chi se ne importa del garantismo e delle ragioni della difesa. Nel maggio ‘94, vinte le sue prime elezioni, Berlusconi offrirà a Di Pietro il ministero dell’Interno. Ma il pm rifiuterà. Il 6 dicembre Di Pietro si dimetterà dal pool. E Berlusconi commenterà: “Le dimissioni di Di Pietro, un magistrato che si era guadagnato il rispetto di tutti gli italiani , lasciano l’amaro in bocca. Le sue inchieste esprimevano una grande ansia di verità” (6.12.94).

   “Penso di incontrarlo molto presto: Di Pietro in politica potrebbe essere un’ottima cosa... La sua spinta alla moralizzazione sarebbe un patrimonio prezioso per il Paese... Ho sempre riconosciuto il ruolo svolto dai magistrati nella lotta al sistema perverso della Prima Repubblica. E le tv e i giornali della Fininvest sono sempre stati in prima linea nel difendere i magistrati e in particolare Antonio Di Pietro. Dal Tg5 al Tg4, da Panorama a Epoca , al Giornale. Ho messo in guardia dai rischi di strumentalizzazione politica, ma sempre ricordando il merito complessivo della magistratura, e di Di Pietro soprattutto... Le intemperanze di Sgarbi non possono far dimenticare tutto l’appoggio dato dalle reti e dai giornali Fininvest ai magistrati” (7.12.94). Un omonimo di Silvio Berlusconi? No, proprio lui.

sabato 11 febbraio 2012

Osteria del Vaticano di Marco Travaglio

In alcune redazioni molto supponenti e poco sportive, quando un altro giornale trova una notizia in esclusiva (“scoop”), invece di riprenderla per farla conoscere ai propri lettori citando la fonte, si fa come la volpe con l’uva (voce del verbo “rosicare”). Si va a caccia di qualcuno che smentisca per dire: “La notizia è falsa. Del resto, se fosse vera, la sapremmo anche noi, anzi l’avremmo saputa per primi”. L’altra sera, appena Santoro e Ruotolo hanno preannunciato lo scoop di Marco Lillo, i rosiconi si sono messi subito all’opera. La loro speranza era che il documento pubblicato dal Fatto fosse falso. Purtroppo padre Lombardi ha confermato che è autentico, anche se contiene “farneticazioni che non vanno prese sul serio”. Ma allora perché far leggere al Papa farneticazioni da non prendere sul serio? Per fargli uno scherzo? Forse perché il mittente è un cardinale e riferisce le parole di un altro cardinale. Se ci sono cardinali farneticanti, forse è il caso di pensionarli. In ogni caso, per quel che riguarda il Fatto, una volta confermata l’autenticità del documento, nessun’altra “smentita” è possibile.

Se Romeo non ha detto quelle cose, o le ha dette ma non sono vere, qualsiasi smentita va indirizzata a chi ha inoltrato l’appunto al Papa (il cardinale Castrillón). Non certo al Fatto, che ha pubblicato un documento autentico. Punto. Ma i rosiconi non si perdono d’animo e giocano con le paroleRepubblica, per nascondere le parole “Fatto” e “quotidiano”, si esercita in tripli salti mortali carpiati con avvitamento. Occhiello sul giornale: “In tv spunta un documento: ‘ Attentato al Papa’”. Ecco com’è nata la notizia: è spuntata. Sito repubblica.it: “Notizie prive di fondamento”. Il cardinale Romeo smentisce la rivelazione del Fatto”. Smentisce? Romeo conferma persino il “viaggio privato in Cina a metà novembre”. Smentisce “quanto gli viene attribuito”. Ma va? Qualcuno poteva pensare che un cardinale ammetta di aver detto in giro che stanno per uccidere il Papa? Più correttamente il corriere. it evita la parola “smentita” e titola: “Il complotto (presunto) contro il Papa e il mistero di quel viaggio in Cina”. Che è la vera materia del contendere. Invece il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, va in tv e dice che il documento non meritava quel risalto: cioè, in un paese dove anche i sospiri dell’ultimo ecclesiastico su qualunque argomento dello scibile umano finiscono su tg e giornali, un appunto consegnato da un cardinale al Papa su un complotto per eliminarlo va nascosto. Magari in un breviario.

Certi vaticanisti sono letteralmente costernati dinanzi a questo oggetto misterioso chiamato “notizia”. Andrea Tornielli della Stampa ammette che il documento è “autentico ma sconclusionato”, poi però lamenta che “sia a disposizione dei media” (forse voleva dire “del Fatto”). Idem il messaggero. it: “Da qualche tempo a questa parte dalla Segreteria di Stato vaticana escono documenti riservati”. Anche per il giornale. it lo scandalo non è il documento, ma la pubblicazione: “Il mistero del complotto per uccidere il Papa: chi ha dato il documento ai giornali?” (forse voleva scrivere “al Fatto”). Poi il sallustionline rivela che “il Vaticano stronca sul nascere lo scoop del Fatto” e conclude: “Non sappiamo cosa ci sia di vero nello scoop del Fatto”. Ah, non lo sapete? Ve lo diciamo noi: è tutto vero e il Vaticano non stronca un bel nulla. Il sito dell’Unità non l’ha presa bene: “Se voleva attirare l’attenzione, il Fatto Quotidiano ci è riuscito… L’annuncio è stato dato in collegamento con Servizio Pubblico di Santoro (sostenuto dallo stessoFatto)”. Ecco perché il Fatto dà una notizia: per “attirare l’attenzione” (dev’essere per questo che, al contrario, l’attenzione sull’Unità è piuttosto al ribasso). Ed ecco perché Santoro la anticipa: perché è sostenuto dal Fatto. L’idea che un giornale e un giornalista diano una notizia perché è il loro mestiere, non sfiora neppure l’house organ del Pd. Meno male che c’è Libero, che stacca tutti di parecchie lunghezze: “Travaglio ‘ uccide ’ il Papa. Vaticano: tutta fantasia”. Ma forse si confonde con l’attentato a Belpietro.

giovedì 2 febbraio 2012

Una legge sulla responsabilità giuridica dei partiti. Il Fatto Quotidiano raccoglie le firme

Il gruppo parlamentare del Pd ha espulso all’unanimità il senatore Luigi Lusi che ha confessato di aver svaligiato la cassa della fu Margherita e ha provato a patteggiare 1 anno per appropriazione indebita, ma fortunatamente la Procura di Roma ha risposto picche perché la pena è “incongrua”.
Vedremo quale congrua la sanzione infliggerà a Lusi la mitica Commissione di garanzia del Pd (quella che è riuscita a non espellere nemmeno Penati, accontentandosi della sua autosospensione). Ma, quale che sia la punizione, i partiti non possono cavarsela così. Il vero scandalo non è quel che ha fatto Lusi, ma il sistema che l’ha reso possibile.
Lo scandalo sono i partiti morti che restano in vita solo per incassare i rimborsi elettorali, che seguitano ad affluire anche se i partiti non esistono più e dunque non corrono alle elezioni. Lo scandalo sono i rimborsi assegnati per cinque anni anche se la legislatura ne dura due.
Lo scandalo sono i “rimborsi” stessi: finanziamenti pubblici mascherati, in barba al referendum del ’93, che non coprono le spese sostenute dai partiti per le campagne elettorali, ma vengono assegnati “a prescindere”, senza l’ombra di una pezza d’appoggio.


Infatti i partiti spendono 1, incassano 4 e il resto di 3 lo mettono in banca,o lo investono in speculazioni immobiliari o finanziarie in Tanzania (vedi Lega), oppure se lo intascano (vedi Lusi). Insomma regna la più assoluta anarchia, dove ciascuno fa quel che gli pare senza che nessuno controlli nulla.
A giudicare su eventuali irregolarità è il “foro domestico” delle commissioni parlamentari: e lì una mano lava l’altra. Nel 2008 i revisori dei conti di Camera e Senato, esaminando i rendiconti dei partiti sui “rimborsi elettorali” 2006, stabilì che erano quasi tutti irregolari.
Ma non accadde nulla e non pagò nessuno. Eppure si tratta di soldi pubblici (e parecchi: 1 miliardo a legislatura). E’ dal 1948 che si attende una legge sulla responsabilità giuridica dei partiti (il primo a proporne una fu don Luigi Sturzo), che li obblighi a rispondere della loro gestione patrimonial-finanziaria e del rispetto della democrazia interna (tesseramenti, congressi, candidature, gruppi dirigenti, organi di garanzia), con regole severe e sanzioni efficaci.
In Germania il partito neonazista Npd è praticamente fallito perché il Bundestag gli ha sospeso il finanziamento pubblico (300 mila euro) e gli ha affibbiato una supermulta di 2,5 milioni (nel 2006 gliene aveva appioppata una da 1,7 milioni) per gravi irregolarità contabili che hanno pure portato in carcere l’amministratore.
 Da oggi, sul sito del Fatto, raccogliamo firme per proporre una legge analoga anche in Italia, basata sui seguenti principi irrinunciabili. 1. I rimborsi elettorali non possono superare un certo tetto e devono essere erogati solo a fronte di fatture e ricevute che documentino le spese effettivamente sostenute in ogni singola campagna elettorale. 2. I partiti possono ricevere finanziamenti da imprese o soggetti privati (non da società pubbliche o miste), purché li registrino a bilancio e li dichiarino sul sito internet delle Camere quando superano la soglia dei 5mila euro l’anno (quella vigente prima del colpo di spugna del 2006, che la elevò addirittura a 50 mila). 3.Chi riceve contributi da aziende pubbliche o miste di qualsiasi importo, oppure da aziende o soggetti privati superiori ai 5 mila euro senza denunciarli, commette reato di finanziamento illecito.
Ma incorre anche in sanzioni amministrative (affidate non più all’”autodichiarazione” delle Camere, ma alla Corte costituzionale): per il singolo parlamentare, l’immediata decadenza dal mandato e la perpetua ineleggibilità e interdizione dai pubblici uffici; per il partito, che risponde per responsabilità oggettiva anche in caso di condotte infedeli dei suoi amministratori, una multa salata e la revoca di tutti i rimborsi elettorali relativi all’ultima campagna. In queste ultime sanzioni incorrono anche i partiti che non rispettano le regole di democrazia e trasparenza interna.

 MARCO TRAVAGLIO da Il Fatto Quotidiano del 2 febbraio 2011