domenica 11 marzo 2012

La mafia non esiste

di Marco Travaglio (da Il Fatto Quotidiano)

La Cassazione che annulla una condanna con rinvio ad altro processo d’appello rientra nella fisiologia del sistema giudiziario italiano. Non comporta affatto una bocciatura delle accuse, ma solo della sentenza d’appello, che qui presentava più di un’incongruenza. Del resto, chiunque lo conosca un po’ sa bene che il processo Dell’Utri è il più solido fra tutti quelli celebrati per concorso esterno in associazione mafiosa. 
Il meno dipendente dai mafiosi pentiti. 
Il più ricco di prove autonome, documentali e testimoniali, di intercettazioni, addirittura di ammissioni dell’imputato: insomma il meno legato alle parole e il più ancorato ai fatti. 
Se nel nuovo appello Dell’Utri fosse assolto, significherebbe che non si potrà mai più condannare nessuno per aver servito la mafia dall’esterno, cioè senza farne parte. Una jattura dalle proporzioni incalcolabili, in un paese infestato dalle mafie proprio grazie ai loro rapporti esterni con politici, pubblici funzionari, finanzieri, professionisti, magistrati, avvocati. Eppure ieri (l'altro giorno, n.d.f) il Pg della Cassazione Francesco Iacoviello, ex pm a Ravenna, già celebre per aver chiesto e ottenuto l’annullamento delle condanne di Squillante per Imi-Sir e di De Gennaro per il G8, e la conferma dell’assoluzione di Mannino e della prescrizione per Berlusconi nel caso Mondadori, non si è limitato a criticare la criticabilissima sentenza d’appello che condannava Dell’Utri fino al 1993 e lo assolveva per il periodo politico. 
Ha preso in contropiede persino i difensori e ha liquidato 15 anni di lavoro di investigatori, pm, periti e giudici come cosa da niente, lanciandosi in una sprezzante lezione di diritto ai pm che hanno indagato Dell’Utri, al gup che l’ha rinviato a giudizio, ai tre giudici del tribunale che l’han condannato a 9 anni e ai tre giudici d’appello che l’han condannato a 7 anni. Già che c’era, ha aggiunto che il concorso esterno non esiste, “è un reato a cui non crede più nessuno”. In realtà al concorso esterno non credono i mafiosi e i loro amici. 
Ci credono le sezioni unite della Cassazione (9 giudici), che nelle sentenze Carnevale e Mannino hanno confermato che il concorso esterno esiste eccome, delimitandone i confini. 
Ci credono decine di giudici della Suprema Corte, che hanno confermato condanne per concorso esterno di politici (Gorgone e Cito), imprenditori (Cavallari) e funzionari infedeli (Contrada e D’Antone). Devono averci creduto anche quelli del processo Dell’Utri, altrimenti ieri avrebbero annullato senza rinvio. 
Ma soprattutto ci credevano Falcone e Borsellino che, non avendo avuto la fortuna di lavorare a Ravenna, configurarono per primi quel reato nella sentenza-ordinanza del processo maxi-ter a Cosa Nostra e poi la mafia li ammazzò anche perché al concorso esterno ci credevano. 
Il processo Dell’Utri non si basa su “frequentazioni e conoscenze con mafiosi”, come sostiene Iacoviello paragonandolo al caso Mannino. 
Di Mannino i giudici ritennero provate le conoscenze e le frequentazioni mafiose, ma non i favori alla mafia. 
Su Dell’Utri, invece, ci sono montagne di prove sui favori alla e dalla mafia. Anche limitandosi alla carriera pre-politica di manager berlusconiano, è stranoto che B. fosse succube dei mafiosi (al punto di pagarli o di dirsi pronto a pagarli) proprio perché Dell’Utri gli aveva infilato Mangano in casa e mediò per riportare la pace dopo ogni minaccia e attentato. 
Dire che questo non è concorso esterno e soprattutto che il concorso non esiste è un salto indietro, culturale prima che giuridico, agli anni bui in cui per certi giudici Cosa Nostra era solo un coacervo di bande disomogenee e disorganizzate. Insomma la Cupola era un’invenzione di Falcone, il “teorema Falcone” che “non capisce niente” e vuole solo “fregare qualche mafioso”, come diceva nel 1994 Corrado Carnevale al collega Aldo Grassi, che non faceva una piega e ieri presiedeva il collegio che ha annullato la condanna di Dell’Utri. Anni fa Dell’Utri disse che “la mafia non esiste” e un’altra volta concesse: “Se esiste l’antimafia, esisterà anche la mafia”. 
Non immaginava che un giorno, in Cassazione, avrebbe dovuto chiedere il copyright.

Niente lacrime se salta il centrosinistra di Lusi

di Livia Ravera

IL DENARO NON HA cattivo odore, dicevano i latini. È il modo in cui si sperpera, che puzza di morto. Si può rubare per fame, e in genere si finisce in galera, si può anche rubare per avidità, e in genere si resta in libertà abbastanza a lungo. Ma rubare per mangiarsi un piatto di spaghetti al caviale, veramente, sa di stupido. 
Rubare per una notte da 1988 euro in un albergo di San Remo, rubare per poter spendere 11 600 euro in tre giorni soltanto per tenere le chiappe al sole in Montenegro, perchè il “resort” è “esclusivo”...
Sa di disprezzo, sa di coazione a strafare, sa di vuoto morale e mentale. Non per fare la lombrosiana, ma basta guardarlo in faccia, il senatore Lusi, per riconoscere l’eroe dei nostri tempi: occhi torvi e furbi su un fisico bovino . Empatia zero. Bulimia mille. Spiccata propensione alla minaccia. Incapacità patologica a riconoscere i propri torti.
“Se parlo io salta il centro sinistra”, ha detto, fingendo di non sapere che lo stavamo tutti ascoltando.
Parli senza remore, senatore Lusi: se nel centro sinistra è cresciuto un personaggio come Lei, che salti pure per aria, che vada in pezzi, in briciole, in vacca...
Non verseremo una lacrima.

L’antimafia non esiste



di Marco Travaglio (da Il Fatto Quotidiano)


   Pazienza per i soliti commentatori un tanto al chilo, i Battista, Sgarbi e mèchati vari,che non perdono l’occasione per sfoderare il solito repertorio di balle. Pazienza per gli house organ di B., che gabellano per assoluzione l’annullamento del processo Dell’Utri con rinvio ad altro appello e spacciano la requisitoria (anzi l’arringa) del sostituto Pg Iacoviello per una sentenza definitiva. Questi ormai sono rumori di fondo di ogni processo eccellente. 
Ma è possibile che il Csm, l’Anm, le componenti della magistratura associata, la stessa Cassazione e la sua Procura generale non avvertano l’urgenza di dire una parola di chiarezza sulle anomalie dell’ultima fase del processo Dell’Utri: prima il ritardo di un anno con cui è stato fissato in Cassazione, facendolo cadere nelle mani di un amico di Carnevale (basta consultare le mailing list delle varie correnti per trovarvi ogni sorta di interrogativo); e poi il violento attacco del dottor Iacoviello al reato di concorso esterno in associazione mafiosa? 
Davvero, come sostiene quest’ultimo, il reato non esiste? O si tratta di un’esternazione estemporanea, a titolo personale, non concordata né condivisa dal suo ufficio? Che si sappia, il compito di un Pg della Cassazione è proporre il rigetto o l’accoglimento dei ricorsi contro una sentenza di grado inferiore: cioè valutare se la sentenza è ben motivata in punto di legittimità o necessita di una nuova pronuncia di merito. 
Non c’è invece quello di abrogare i reati, né quello di dar fiato alla bocca per esternare a ruota libera considerazioni che di giuridico non hanno nulla, anzi sono smentite da due sentenze della Cassazione a sezioni unite e dal Massimario, tipo: “al concorso esterno ormai non crede più nessuno”. Ma chi l’ha detto? Ma dove sta scritto? Ci sono magistrati che, per molto meno, sono finiti sotto procedimento disciplinare per iniziativa della stessa Procura generale della Cassazione o addirittura sono stati cacciati o trasferiti o degradati dal Csm. 
Possibile che nessuno dica nulla su un’uscita che riporta le lancette dell’antimafia a prima di Falcone? Decine di persone sono in carcere o sotto processo per quel reato: avranno diritto di sapere se quel reato esiste ancora o no? E avranno diritto di saperlo le centinaia di magistrati che ogni giorno rischiano la pelle nelle procure e nei tribunali di frontiera del Sud con indagini e processi per quel reato? 
Certamente l’avrà fatto in buona fede, ma con quelle parole pronunciate dal suo alto scranno il dottor Iacoviello delegittima e isola tutti i colleghi che procedono, fra mille difficoltà e pericoli, sui rapporti fra mafie, istituzioni e professioni. 
E invia un messaggio devastante ai collaboratori di giustizia presenti e futuri che di quei rapporti stanno parlando o potrebbero parlare, proprio mentre siamo a un passo dalla verità sulle stragi e sulle trattative retrostanti: state pure zitti, tanto i processi alla classe dirigente collusa con la mafia non si faranno più o, se si faranno, finiranno nel nulla. 
Anche il procuratore nazionale Grasso, anziché tutelare il lavoro di tanti pm e giudici antimafia che al concorso esterno credono perchè lo vedono ogni giorno sotto i propri occhi, lavorando in Sicilia, Calabria, Campania anziché a Roma o a Ravenna, se n’è uscito con una bizzarria: siccome lui ha contestato a Cuffaro il favoreggiamento mafioso e Cuffaro è stato condannato per quel reato, allora “per combatte le zona grigia che ruota intorno a Cosa Nostra è preferibile contestare fattispecie concrete di reato”. 
Peccato che la Cassazione abbia stabilito che il favoreggiamento vale per uno-due episodi singoli; se invece la condotta è ripetuta e prolungata nel tempo, come nel caso di Dell’Utri, è concorso esterno o partecipazione all’associazione mafiosa. Quante ipocrisie per nascondere la vera posta in gioco: Dell’Utri è il braccio destro del padrone d’Italia (sì, B. lo è ancora), dunque la legge è uguale per tutti, ma non per lui.

mercoledì 29 febbraio 2012

Tecnici ad alta voracità


di Marco Travaglio
   La violenza, oltre a essere sempre sbagliata, è il miglior regalo che i No Tav possano fare al partito trasversale Pro Tav: che aspetta soltanto il morto per asfaltare l’intera Valsusa e farne tre, di Tav, non solo uno. Per fortuna la manifestazione di sabato è stata l’ennesima presa di distanze del movimento dalla violenza. Non a parole (anche se qualche parola dei leader non guasterebbe, per rimediare al danno fatto con gli assalti al procuratore Caselli), ma nei fatti. Detto questo, c’è un però: gli ordini che il partito trasversale Pro Tav impartisce alle forze dell’ordine. Non sta scritto da nessuna parte che queste debbano cingere d’assedio un’intera valle, braccare i contestatori fin sui tralicci situati a casa loro (infatti si vogliono espropriare i terreni), accogliere nelle stazioni in assetto antisommossa i manifestanti reduci da un corteo pacifico. Chi dà questi ordini compie una scelta precisa: quella di provocare. La provocazione non giustifica la violenza, ma ne attenua le responsabilità: infatti il codice penale prevede l'attenuante della provocazione. Qualche settimana fa alcuni cittadini accolsero una manifestazione secessionista della Lega a Milano srotolando un tricolore: subito intervenne la Digos intimando loro di ritirarlo per non provocare i leghisti. Il mondo alla rovescia, visto che, fra la bandiera nazionale e i vessilli secessionisti, sono i secondi a essere illegali e non la prima. Però si può capire il gesto della Digos, per evitare inutili incidenti. Ora la domanda è: il dovere della polizia è evitare gli incidenti, o provocarli? Nel caso della Lega, li ha evitati. Nel caso del movimento No Tav, sembra volerli provocare. E non per colpa dei singoli poliziotti, che (eccetto quelli che aggiungono gratuitamente condotte violente, difficili da individuare e punire perché nascosti sotto i caschi) obbediscono agli ordini. Ma per colpa di chi dà gli ordini. Cioè della politica. La militarizzazione della Valsusa, a protezione di un cantiere che non esiste, dura da almeno dieci anni e accomuna centrodestra e centrosinistra. Governi politici di segno opposto, ma non sul Tav, che ha sempre messo tutti d’accordo (compresi i grandi costruttori e le coop rosse, già noti alle cronache giudiziarie). Ora però c’è un governo tecnico. Formato cioè, almeno sulla carta, da “esperti”. La domanda è semplice: con quali argomenti tecnici hanno deciso di continuare a finanziare quell’opera? Da anni si attende che qualche autorità spieghi ai valsusini e a tutti gli italiani perché mai imbarcarsi in un’opera da megalomani, concepita negli anni 80, quando ancora il modello di sviluppo si fondava su una gigantesca invidia del pene e inseguiva la grande muraglia e la piramide di Cheope. Oggi tutti i dati descrivono la Torino-Lione come una cattedrale nel deserto, inutile per il traffico merci e passeggeri, anzi dannosa per l’ambiente e le casse dello Stato. Il governo tecnico, con motivazioni tecniche, ha respinto l’assalto dei forchettoni olimpici di Roma 2020: operazione che sarebbe costata ai contribuenti almeno 5 miliardi. Il Tav, anche nell’ultima versione “low cost”, dovrebbe costarne 8: ma i preventivi, in Italia, sono sempre destinati a raddoppiare o triplicare (il Tav Torino-Milano è costato 73 milioni di euro a km, contro i 9,2 della Spagna e i 10,2 della Francia). Il gioco vale la candela, a fronte di un traffico merci e pesseggeri Italia-Francia in calo costante? Gli economisti de lavoce.info, l’appello di 360 docenti universitari e persino il Sole 24 Ore rispondono che no, l’opera non serve più a nulla. Sono tecnici anche loro, anche se non stanno al governo: tutti cialtroni? Se i tecnici di governo han qualcosa di serio da ribattere, lo facciano, dati alla mano: altrimenti i cialtroni sono loro. Rispondere, come l’ineffabile Passera, che “i lavori devono continuare” punto e basta, in omaggio al dogma dell’Immacolata Produzione, è roba da politicanti senz’argomenti. E, per come si sono messe le cose, è la peggiore delle provocazioni

mercoledì 22 febbraio 2012

C’è ladro e ladro per gli industriali di Giorgio Meletti (da "Il Fatto Quotidiano")

L’idea di Emma Marcegaglia che il sindacato protegga “assenteisti cronici, ladri e quelli che non fanno il loro lavoro” è opinabile, sicuramente offensiva ma abbastanza generica da risultare legittima.
   È sul piano della logica che la presidente della Confindustria delude. Le leggi che consentono all’azienda di famiglia di prosperare da decenni non vietano di licenziare ladri e assenteisti cronici. Alle volte l’applicazione delle leggi è imperfetta: per esempio sarebbe vietato agli operai di morire dentro gli stabilimenti siderurgici di casa Marcegaglia, per ogni tanto, purtroppo accade.
   Ma alla signora Marcegaglia piace la scorciatoia decisionista. Il garantismo vale solo per i suoi amici imprenditori e manager che anche se condannati in tribunale (ladri veri, con tanto ti timbro giudiziario) se la cavano con il solito “sono certo che l’appello ribalterà il verdetto”. Per gli operai invece deve valere la giustizia sommaria del padrone: senza l’articolo 18 sarà l’imprenditore, a suo insindacabile giudizio, a decidere chi è ladro e chi no. A che servono i giudici? Per esempio, alla Marcegaglia spa sarà l’amministratore delegato Antonio Marcegaglia, fratello di Emma, a decidere chi ha la moralità giusta per lavorare e chi no. Ma se questo sistema rapido voluto dalla presidenza della Confindustria fosse stato già in vigore quattro anni fa, chi avrebbe giudicato Antonio Marcegaglia? Sì, perché il 28 marzo 2008 l’imprenditore mantovano ha patteggiato undici mesi di reclusione (pena sospesa) per corruzione: ha ammesso di aver pagato una tangente a un manager della società pubblica Enipower per aggiudicarsi un’ambita commessa. Fermo restando che una simile impresa sarebbe stata sanzionabile con il licenziamento anche in vigenza dell’articolo 18, il precedente illumina la filosofia di casa Marcegaglia: l’imprenditore è signore e padrone della vita dei suoi dipendenti, li assume, li giudica e li licenzia. Ma nessuno può giudicare loro, i padroni, che fanno tutto da soli: delinquono, confessano, patteggiano e si perdonano. E neppure vengono cacciati dalla Confindustria.


Emma Marcegaglia: “Il sindacato non protegga ladri e fannulloni”. 
A proposito, quanti imprenditori indegni ha mai cacciato Confindustria?

giovedì 16 febbraio 2012

DA B. A DELLA LOGGIA TUTTI TIFOSI DEL POOL


MEMORIA CORTA
di Gianni Barbacetto Peter Gomez e Marco Travaglio

 I commentatori si schierano in grandissima maggioranza dalla parte di Mani Pulite. A cominciare da molti che si trasformeranno, anni dopo, in critici implacabili della magistratura. Fin dal 1992 Ernesto Galli della Loggia, editorialista prima della Stampa e poi del Corriere, definisce i partiti “combriccole di malandrini”. Aggiunge che “tutti hanno rubato”. E sentenzia: “È già molto se, dopo gli estenuanti e annosi riti giudiziari che sono in Italia la regola, dopo gli indulti, le amnistie, i patteggiamenti e gli arresti domiciliari, alla fine si riesce a mandare in galera qualcuno per un lasso di tempo non proprio ridicolo”.

   ANCOR più deciso, nell’inneggiare al pool e nell’attaccare i tangentisti, è un docente lucchese di Epistemologia, Marcello Pera, che diventerà parlamentare di Forza Italia e presidente del Senato. “Come alla caduta di altri regimi – scrive per esempio sulla Stampa il 19.7.93 – occorre una nuova Resistenza, un nuovo riscatto e poi una vera, radicale, impietosa epurazione (...). Il processo è già cominciato e per buona parte dell’opinione pubblica già chiuso con una condanna (...). La rivoluzione ha regole ferree e tempi stretti”.
   Vittorio Feltri, direttore de L’Indipendente, esulta a ogni arresto: “Ma questa è una pacchia, un godimento fisico, erotico. Quando mai siamo stati tanto vicini al sollievo? Che Dio salvi Di Pietro” (15.6.92). E quando Craxi, che lui chiama “il cinghialone”, riceve il primo “avviso”, non si trattiene: “Mai provvedimento giudiziario fu più popolare, più atteso, quasi liberatorio di questo firmato contro Craxi (...). Di Pietro non si è lasciato intimidire dalle critiche, dalle minacce di mezzo 
mondo politico (diciamo pure del regime putrido di cui l’appesantito Bettino è campione suonato) e ha colpito in basso e in alto, perfino lassù dove non osano nemmeno le aquile. Ha colpito senza fretta, nessuna impazienza di finire sui giornali per raccogliere altra gloria. Craxi ha commesso l’errore (...) di spacciare i compagni suicidi (per la vergogna di essere stati colti con le mani nel sacco) come vittime di complotti antisocialisti (...). È una menzogna, onorevole: che cosa vuole che importi a Di Pietro delle finalità politiche). I giudici lavorano tranquilli, in assoluta serenità: sanno che i cittadini, ritrovata dignità e capacità critica, sono dalla loro parte. Come noi dell’Indipendente, sempre” (16.12.92). “Non si può pretendere di guidare un partito avendo in tasca un avviso di garanzia. L’avviso di garanzia è un modo gentile per dire ‘caro mio, sei dentro fino al collo nell’inchiesta sulle tangenti’”» (20.7.92). E Marcello Pera, sulla Stampa (3.7.92): “Un ministro che, pur essendo in grado di provare la propria innocenza, si dimette per essere stato sospettato e accusato, darebbe oggi agli italiani la più efficace dose di fiducia”. (…)
   Il 29 aprile 1993 la Camera respinge quattro richieste di autorizzazione a procedere contro Craxi. Galli della Loggia denuncia 
“l’estrema gravità” del “voto parlamentare largamente assolutorio per Craxi”. E aggiunge: “Dopo quel voto è ormai chiaro che sulla scena pubblica esiste un nocciolo duro di malaffare politico e corrotta intrinsichezza con la proporzionale, che ha il suo epicentro nei due principali partiti delle vecchie maggioranze (Dc e Psi)” (…)
   I PEGGIORI accusatori di Craxi, almeno in quei mesi a cavallo fra il 1992 e il 1993, sono proprio i suoi compagni socialisti. Prontissimi a saltare giù dal carro del perdente e a giocare allo scaricabarile. Gennaro Acquaviva, capogruppo del Psi al Senato e capo della segreteria di Craxi: “Certo, per gran parte della classe politica la famiglia si è rivelata una sciagura. E non parlo solo di Craxi...” (16.12.92). Don Gianni Baget Bozzo, politologo ed europarlamentare socialista: “Craxi doveva andare a Milano e chiedere perdono. C’è una questione morale, prima che politica. 
Nel centenario del Psi, chiedere scusa per le tangenti incassate sarebbe stato un atto comprensibile” (11.9.92). Ottaviano Del Turco, segretario aggiunto della Cgil in quota Psi: “Non mi stupisco affatto dell’esistenza del partito degli affari nel Psi. Ho sempre denunciato quelli che brillano per la luce dei soldi, come Paperon de’ Paperoni” (15.5.92). E ancora: “Al congresso di Rimini del 1987 parlai contro i rampanti, gli arricchimenti facili dei compagni del partito. Un’ovazione. Il giorno dopo parlò Dell’Unto: ‘Ma che d’è ’sta questione morale? ’Sta cazzata? Certo non riguarda il Psi’. E giù applausi...” (11.2.93). Rino Formica: “I craxiani sono personaggi che non riuscivano a realizzare il socialismo e allora cercavano almeno un po’ di benessere...” (1.11.92); “Craxi si comporta da stalinista, usa metodi autoritari e dispotici” (13.11.92). Persino Bobo Craxi prende le distanze dal genitore: “Non rinnego quanto ha fatto mio padre, ma non mi sono mai considerato craxiano. Nessuno è indispensabile” (10.9.92). La sorella Stefania è costretta a replicargli: “Mio fratello Bobo è vissuto nella scia di mio padre, ha creduto che bastasse chiamarsi Craxi per fare politica e farla bene” (30.10.92). Paolo Pillitteri, cognato di Craxi, ex sindaco e ora deputato, è addirittura sdegnato: “Io la chiamerei Cupola. Sì, questo termine rende l’idea di quel che è successo fra politici e imprenditori a Milano” (3.5.92). L’ex ministro Francesco Forte, senatore, vorrebbe addirittura dimettersi da socialista: “Sono stufo di andare a comprare i giornali e sentirmi dire: ‘Ma questo non è ancora in galera?’. Mi vergogno di essere un politico e per giunta socialista” (9.7.92). Ben presto dimenticheranno tutto (…).
   Il 27 agosto 1993 i magistrati di Milano dispongono il giudizio immediato di Sergio Cusani per la maxitangente Enimont. Giuliano Spazzali, il suo avvocato, intuisce che gran parte della partita processuale si giocherà in televisione. Così, in settembre, chiede udienza a Silvio Berlusconi e va a trovarlo (“per la prima e ultima volta”, assicura) ad Arco-re. Chiede uno spazio televisivo sulle reti Fininvest per illustrare le ragioni della difesa.
   MA IL CAVALIERE sembra non capire, distratto da tutt’altri pensieri. “Non riuscii a infilare più di sei parole”, confida Spazzali agli autori di questo libro: “Berlusconi, nel suo maglioncino blu, parlò per più di un’ora e mezza, ma di tutt’altro argomento: mi spiegò che, nella stanza accanto, si stava lavorando perché c’era la necessità di rifondare le organizzazioni politiche”. Fervono i preparativi per il battesimo di Forza Italia. Ma allora nessuno se ne accorge. Epoca, il settimanale della Mondadori (gruppo 
Fininvest), offrirà ai suoi lettori due videocassette a cura del Tg5 con le sequenze più spettacolari del teleprocesso a Cusani, commentate con enfasi da Andrea Pamparana ed Enrico Mentana. Il nazionalpopolare Tv, sorrisi e canzoni pubblica una copertina con il titolo “Di Pietro, facci sognare”. Giornali e tv del Cavaliere, ormai con un piede in politica, seguitano a “tifare” Di Pietro. E chi se ne importa del garantismo e delle ragioni della difesa. Nel maggio ‘94, vinte le sue prime elezioni, Berlusconi offrirà a Di Pietro il ministero dell’Interno. Ma il pm rifiuterà. Il 6 dicembre Di Pietro si dimetterà dal pool. E Berlusconi commenterà: “Le dimissioni di Di Pietro, un magistrato che si era guadagnato il rispetto di tutti gli italiani , lasciano l’amaro in bocca. Le sue inchieste esprimevano una grande ansia di verità” (6.12.94).

   “Penso di incontrarlo molto presto: Di Pietro in politica potrebbe essere un’ottima cosa... La sua spinta alla moralizzazione sarebbe un patrimonio prezioso per il Paese... Ho sempre riconosciuto il ruolo svolto dai magistrati nella lotta al sistema perverso della Prima Repubblica. E le tv e i giornali della Fininvest sono sempre stati in prima linea nel difendere i magistrati e in particolare Antonio Di Pietro. Dal Tg5 al Tg4, da Panorama a Epoca , al Giornale. Ho messo in guardia dai rischi di strumentalizzazione politica, ma sempre ricordando il merito complessivo della magistratura, e di Di Pietro soprattutto... Le intemperanze di Sgarbi non possono far dimenticare tutto l’appoggio dato dalle reti e dai giornali Fininvest ai magistrati” (7.12.94). Un omonimo di Silvio Berlusconi? No, proprio lui.

sabato 11 febbraio 2012

Osteria del Vaticano di Marco Travaglio

In alcune redazioni molto supponenti e poco sportive, quando un altro giornale trova una notizia in esclusiva (“scoop”), invece di riprenderla per farla conoscere ai propri lettori citando la fonte, si fa come la volpe con l’uva (voce del verbo “rosicare”). Si va a caccia di qualcuno che smentisca per dire: “La notizia è falsa. Del resto, se fosse vera, la sapremmo anche noi, anzi l’avremmo saputa per primi”. L’altra sera, appena Santoro e Ruotolo hanno preannunciato lo scoop di Marco Lillo, i rosiconi si sono messi subito all’opera. La loro speranza era che il documento pubblicato dal Fatto fosse falso. Purtroppo padre Lombardi ha confermato che è autentico, anche se contiene “farneticazioni che non vanno prese sul serio”. Ma allora perché far leggere al Papa farneticazioni da non prendere sul serio? Per fargli uno scherzo? Forse perché il mittente è un cardinale e riferisce le parole di un altro cardinale. Se ci sono cardinali farneticanti, forse è il caso di pensionarli. In ogni caso, per quel che riguarda il Fatto, una volta confermata l’autenticità del documento, nessun’altra “smentita” è possibile.

Se Romeo non ha detto quelle cose, o le ha dette ma non sono vere, qualsiasi smentita va indirizzata a chi ha inoltrato l’appunto al Papa (il cardinale Castrillón). Non certo al Fatto, che ha pubblicato un documento autentico. Punto. Ma i rosiconi non si perdono d’animo e giocano con le paroleRepubblica, per nascondere le parole “Fatto” e “quotidiano”, si esercita in tripli salti mortali carpiati con avvitamento. Occhiello sul giornale: “In tv spunta un documento: ‘ Attentato al Papa’”. Ecco com’è nata la notizia: è spuntata. Sito repubblica.it: “Notizie prive di fondamento”. Il cardinale Romeo smentisce la rivelazione del Fatto”. Smentisce? Romeo conferma persino il “viaggio privato in Cina a metà novembre”. Smentisce “quanto gli viene attribuito”. Ma va? Qualcuno poteva pensare che un cardinale ammetta di aver detto in giro che stanno per uccidere il Papa? Più correttamente il corriere. it evita la parola “smentita” e titola: “Il complotto (presunto) contro il Papa e il mistero di quel viaggio in Cina”. Che è la vera materia del contendere. Invece il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, va in tv e dice che il documento non meritava quel risalto: cioè, in un paese dove anche i sospiri dell’ultimo ecclesiastico su qualunque argomento dello scibile umano finiscono su tg e giornali, un appunto consegnato da un cardinale al Papa su un complotto per eliminarlo va nascosto. Magari in un breviario.

Certi vaticanisti sono letteralmente costernati dinanzi a questo oggetto misterioso chiamato “notizia”. Andrea Tornielli della Stampa ammette che il documento è “autentico ma sconclusionato”, poi però lamenta che “sia a disposizione dei media” (forse voleva dire “del Fatto”). Idem il messaggero. it: “Da qualche tempo a questa parte dalla Segreteria di Stato vaticana escono documenti riservati”. Anche per il giornale. it lo scandalo non è il documento, ma la pubblicazione: “Il mistero del complotto per uccidere il Papa: chi ha dato il documento ai giornali?” (forse voleva scrivere “al Fatto”). Poi il sallustionline rivela che “il Vaticano stronca sul nascere lo scoop del Fatto” e conclude: “Non sappiamo cosa ci sia di vero nello scoop del Fatto”. Ah, non lo sapete? Ve lo diciamo noi: è tutto vero e il Vaticano non stronca un bel nulla. Il sito dell’Unità non l’ha presa bene: “Se voleva attirare l’attenzione, il Fatto Quotidiano ci è riuscito… L’annuncio è stato dato in collegamento con Servizio Pubblico di Santoro (sostenuto dallo stessoFatto)”. Ecco perché il Fatto dà una notizia: per “attirare l’attenzione” (dev’essere per questo che, al contrario, l’attenzione sull’Unità è piuttosto al ribasso). Ed ecco perché Santoro la anticipa: perché è sostenuto dal Fatto. L’idea che un giornale e un giornalista diano una notizia perché è il loro mestiere, non sfiora neppure l’house organ del Pd. Meno male che c’è Libero, che stacca tutti di parecchie lunghezze: “Travaglio ‘ uccide ’ il Papa. Vaticano: tutta fantasia”. Ma forse si confonde con l’attentato a Belpietro.

giovedì 2 febbraio 2012

Una legge sulla responsabilità giuridica dei partiti. Il Fatto Quotidiano raccoglie le firme

Il gruppo parlamentare del Pd ha espulso all’unanimità il senatore Luigi Lusi che ha confessato di aver svaligiato la cassa della fu Margherita e ha provato a patteggiare 1 anno per appropriazione indebita, ma fortunatamente la Procura di Roma ha risposto picche perché la pena è “incongrua”.
Vedremo quale congrua la sanzione infliggerà a Lusi la mitica Commissione di garanzia del Pd (quella che è riuscita a non espellere nemmeno Penati, accontentandosi della sua autosospensione). Ma, quale che sia la punizione, i partiti non possono cavarsela così. Il vero scandalo non è quel che ha fatto Lusi, ma il sistema che l’ha reso possibile.
Lo scandalo sono i partiti morti che restano in vita solo per incassare i rimborsi elettorali, che seguitano ad affluire anche se i partiti non esistono più e dunque non corrono alle elezioni. Lo scandalo sono i rimborsi assegnati per cinque anni anche se la legislatura ne dura due.
Lo scandalo sono i “rimborsi” stessi: finanziamenti pubblici mascherati, in barba al referendum del ’93, che non coprono le spese sostenute dai partiti per le campagne elettorali, ma vengono assegnati “a prescindere”, senza l’ombra di una pezza d’appoggio.


Infatti i partiti spendono 1, incassano 4 e il resto di 3 lo mettono in banca,o lo investono in speculazioni immobiliari o finanziarie in Tanzania (vedi Lega), oppure se lo intascano (vedi Lusi). Insomma regna la più assoluta anarchia, dove ciascuno fa quel che gli pare senza che nessuno controlli nulla.
A giudicare su eventuali irregolarità è il “foro domestico” delle commissioni parlamentari: e lì una mano lava l’altra. Nel 2008 i revisori dei conti di Camera e Senato, esaminando i rendiconti dei partiti sui “rimborsi elettorali” 2006, stabilì che erano quasi tutti irregolari.
Ma non accadde nulla e non pagò nessuno. Eppure si tratta di soldi pubblici (e parecchi: 1 miliardo a legislatura). E’ dal 1948 che si attende una legge sulla responsabilità giuridica dei partiti (il primo a proporne una fu don Luigi Sturzo), che li obblighi a rispondere della loro gestione patrimonial-finanziaria e del rispetto della democrazia interna (tesseramenti, congressi, candidature, gruppi dirigenti, organi di garanzia), con regole severe e sanzioni efficaci.
In Germania il partito neonazista Npd è praticamente fallito perché il Bundestag gli ha sospeso il finanziamento pubblico (300 mila euro) e gli ha affibbiato una supermulta di 2,5 milioni (nel 2006 gliene aveva appioppata una da 1,7 milioni) per gravi irregolarità contabili che hanno pure portato in carcere l’amministratore.
 Da oggi, sul sito del Fatto, raccogliamo firme per proporre una legge analoga anche in Italia, basata sui seguenti principi irrinunciabili. 1. I rimborsi elettorali non possono superare un certo tetto e devono essere erogati solo a fronte di fatture e ricevute che documentino le spese effettivamente sostenute in ogni singola campagna elettorale. 2. I partiti possono ricevere finanziamenti da imprese o soggetti privati (non da società pubbliche o miste), purché li registrino a bilancio e li dichiarino sul sito internet delle Camere quando superano la soglia dei 5mila euro l’anno (quella vigente prima del colpo di spugna del 2006, che la elevò addirittura a 50 mila). 3.Chi riceve contributi da aziende pubbliche o miste di qualsiasi importo, oppure da aziende o soggetti privati superiori ai 5 mila euro senza denunciarli, commette reato di finanziamento illecito.
Ma incorre anche in sanzioni amministrative (affidate non più all’”autodichiarazione” delle Camere, ma alla Corte costituzionale): per il singolo parlamentare, l’immediata decadenza dal mandato e la perpetua ineleggibilità e interdizione dai pubblici uffici; per il partito, che risponde per responsabilità oggettiva anche in caso di condotte infedeli dei suoi amministratori, una multa salata e la revoca di tutti i rimborsi elettorali relativi all’ultima campagna. In queste ultime sanzioni incorrono anche i partiti che non rispettano le regole di democrazia e trasparenza interna.

 MARCO TRAVAGLIO da Il Fatto Quotidiano del 2 febbraio 2011

venerdì 27 gennaio 2012

Fascist Legacy

Fascist Legacy ("L'eredità del fascismo") è un documentario della BBC sui crimini di guerra commessi dagli italiani durante la Seconda Guerra Mondiale. La RAI acquistò una copia del programma, che però non fu mai mostrato al pubblico. La7 ne ha trasmesso ampi stralci nel 2004. Il documentario, diretto da Ken Kirby, ricostruisce le terribili vicende che accaddero nel corso della guerra di conquista coloniale in Etiopia e negli anni successivi e delle ancora più terribili vicende durante loccupazione nazifascista della Jugoslavia tra gli anni 1941 e 1943. Particolarmente crudele la repressione delle milizie fasciste italiane nella guerriglia antipartigiana in Montenegro ed in altre regioni dei Balcani. Tali azioni vengono mostrate con ottima, ed esclusiva, documentazione filmata di repertorio e con testimonianze registrate sui luoghi storici nella I puntata del film. Il documentario mostra anche i crimini fascisti in Libia e in Etiopia. Nella II puntata il documentario cerca di spiegare le ragioni per le quali i responsabili militari e politici fascisti -colpevoli dei crimini- non sono stati condannati ai sensi del codice del Tribunale Militare Internazionale di Norimberga, per crimini di guerra e crimini contro lumanità. Conduttore del film è lo storico americano Michael Palumbo, autore del libro Lolocausto rimosso, edito -in Italia- da Rizzoli. Nel film vengono intervistati -fra gli altri- gli storici italiani Angelo Del Boca, Giorgio Rochat, Claudio Pavone e lo storico inglese David Ellwood.



Italiani brava gente?
Mha ...

venerdì 20 gennaio 2012

ALCUNE INFORMAZIONI PER CAPIRE MEGLIO GLI EFFETTI DELLE LIBERALIZZAZIONI

lavoce.info


Il decreto di liberalizzazioni approvato dal Governo Monti è riuscito ad aprire settori della nostra economia finora difficili da toccare. Tra i motivi del ritardo con cui l’Italia vara queste norme c’è stata senza dubbio la consistente presenza di rappresentanti delle professioni tra le sedie del Parlamento: in Camera e Senato abbiamo 341 tra avvocati, giornalisti, medici, ingegneri, commercialisti, architetti, notai e farmacisti. Si tratta del 36% dei nostri parlamentari, che saranno presto chiamati a sostenere un decreto che li riguarda personalmente, ma che soprattutto interviene su attività che contribuiscono al Pil fino al 22%.


Le liberalizzazioni favoriranno la crescita, come dimostrato da numerosi studi. Proponiamo alcune letture riguardo la struttura di mercato e le performance del commercio al dettaglio. È stato dimostrato, sia nel caso della Francia che in quello dell'Italia, che restrizioni all’entrata per i grandi negozi non sembrano aiutare i piccoli commercianti, dal momento che le grandi catene di vendita al dettaglio rispondono alle restrizioni aprendo negozi di minori dimensioni, creando condizioni concorrenziali difficili da sostenere; inoltre, un'eccessiva regolamentazione fa diminuire la crescita occupazionale. Altri studi dimostrano come, nel caso inglese, le regolamentazioni restrittive all'ingresso riducano il numero di grandi supermercati e causino un aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, con conseguente perdita di benessere per i consumatori.
Un ultimo studio sulle farmacie in Belgio mostra come le restrizioni all'ingresso abbiano avuto un impatto negativo sul benessere dei consumatori e che l'intensa regolamentazione non sia riuscita a garantire la disponibilità dell'offerta su tutto il territorio: con regole meno restrittive si potrebbero avere il doppio delle farmacie, più posti di lavoro ed una migliore copertura territoriale.

(a cura di Francesca Barbiero, Filippo Teoldi, Guido Zichichi)

giovedì 19 gennaio 2012

QUESTO NON È UN FILM - Versione integrale

Una guerra silenziosa sta mietendo decine di vittime. Solo pochi eroi resteranno sul campo a combatterla. Esseri provenienti da pianeti lontani mostreranno il loro lato oscuro, costringendo gli indiani ad uscire dalle riserve. Ma sotto i colpi dell'odio che divide le razze, l'amore riuscirà a trovare il suo spazio, fino a che il ritrovamento di una misteriosa sedia da regista riuscirà a cambiare il destino dei protagonisti. E quello di centinaia di persone.
Realizzata dalla Conferenza Episcopale Italiana.


Fuori i mercanti dal tempio, largo alle persone di buona volontà!

Da Daccò a Ponzoni fino alla “vicenda Obelix” La devozione alle barche di lusso di Formigoni (da ilfattoquotidiano.it)

di Gianni Barbacetto


Secondo il commercialista dell'ex assessore arrestato ieri, il governatore lombardo si è fatto pagare le ferie a cinque stelle. Come nel caso del faccendiere coinvolto nel crack del San Raffaele. Per non parlare dell'imbarcazione acquistata dal gruppo d'acciaio di Comunione e Liberazione per 670 milioni di lire: 200 sono stati pagati in nero


Chissà che cosa pensa don Julián delle vacanze di Roberto Formigoni. Don Julián Carrón è l’erede di don Luigi Giussani che da sette anni guida Comunione e liberazione. I “ciellologi” sostengono stia ora tentando, assieme al cardinale di Milano Angelo Scola, di raddrizzare la rotta al movimento, dopo l’ubriacatura berlusconiana e gli scandali all’ombra del Pirellone.

L’ultimo colpo è stato l’arresto di Massimo Ponzoni, ex assessore del presidentissimo della Regione Lombardia. Il ragioniere che curava i conti (piuttosto disastrati) delle società di Ponzoni,Sergio Pennati, in una sua lettera-testamento scrive: “La stessa Immobiliare Mais ha pagato varie volte noleggi di barche e vacanze esotiche allo stesso Ponzoni e al suo capo Formigoni”. Una società di Ponzoni dunque, la Immobiliare Mais, secondo il ragioniere avrebbe saldato il conto di barche e vacanze al “Celeste”. Più che imbarazzante, se si dimostrasse vero: ma Formigoni ha smentito subito con decisione e ieri ha cinguettato su Twitter: Whoever wishes to delegitimize the political system of the Lombardy Region is deluding himself (Chiunque speri di delegittimare il sistema politico della Regione Lombardia sta deludendo se stesso).

Non può negare di essere salito sullo yacht di un altro arrestato, il faccendiere Piero Daccò: lo incastrano le foto. Pantaloni bianchi, torso nudo o canottiera fucsia, il “Formiga” se la gode in buona compagnia, nel mare cristallino della Costa Smeralda. E Daccò è il mediatore targato Cl accusato dalla Procura di Milano di aver fatto sparire nei suoi conti all’estero i soldi sottratti al San Raffaeledi don Luigi Verzé. E non c’è solo la barca del faccendiere che sussurrava a Formigoni. C’è anche l’aereo di don Verzé. Su quel velivolo il Celeste è volato a Saint Marteen, Caraibi. Parola di Stefania Galli, fedele segretaria di Mario Cal, sventurato braccio destro di don Verzé: “Ricordo che una volta”, detta a verbale, “mi fu chiesto dal dottor Cal di prenotare un volo per Saint Marteen a bordo del quale ci sarebbero stato Daccò e Formigoni”.

Ci aveva provato, a non avere la tentazione di andare sulle barche degli altri. Nei primi anni del Duemila aveva la sua, 15 metri e due motori da 400 cavalli: Obelix, ormeggiata nel porto diLavagna, in Liguria. Oddio, non era proprio sua: in quanto membro dei Memores Domini, nucleo d’acciaio di Cl, ha fatto il voto di povertà, oltre che di obbedienza e di castità. Era una barca comunitaria, Obelix, proprietà collettiva dei Memores. Il vecchio proprietario, Adelio Garavaglia, l’aveva venduta nel 2002 a persone tutte del “Gruppo Adulto” di Cl: Fabrizio Rota, Alberto Perego, Alfredo Perico e Formigoni. In più, c’era anche Oriana Ruozi, unica non appartenente ai Memores e moglie di Mazarino De Petro, braccio destro del presidentissimo (condannato e poi prescritto per le tangenti degli affari petroliferi Oil for food con Saddam).

Garavaglia aveva incassato 670 milioni di lire, 470 dichiarati e 200 in nero. Il pagamento di Obelix è un’avventura. Formigoni versa a Garavaglia 111 mila euro dai suoi conti: 10 mila nel gennaio 2002 con un assegno della Banca Popolare di Sondrio; 51 mila euro nel febbraio 2002 con un bonifico che parte dalla Banque Populaire d’Alsace; e 50 mila euro nel luglio 2002 con un altro assegno della Popolare di Sondrio. Il resto lo paga De Petro un po ’ alla volta, per lo più in contanti. Racconta Garavaglia: “Ci incontravamo nei fine settimana a Lavagna, nei pressi della mia ex imbarcazione; io chiedevo a De Petro se avesse portato qualcosa per me, e lui tirava fuori dal suo borsello a tracolla mazzette di banconote tenute insieme da un elastico, sempre tra i 10 e i 15 mila euro per volta”. In altre occasioni, Garavaglia incassava assegni, a volte intestati a nomi falsi (gli inesistenti Carlo Rossi e Giancarlo Rossi). I Memores si affollano a portar soldi per pagare Obelix. Alberto Villa, per esempio, versa 10 mila euro presi da una cassetta di legno che tiene sotto il letto. È “la mia esigua quota di partecipazione”, spiega al pm Alfredo Robledo. Quando questi gli dice che dagli atti non risulta tra i proprietari, Villa cade dalle nuvole: “Apprendo solo in questa sede di non avere alcuna partecipazione nella proprietà dell’imbarcazione, ero convinto di esserne proprietario anch’io”.

Chissà se don Julián Carrón sa queste cose. Dicono che il suo programma sia ora quello di mettere al riparo Cl-movimento ecclesiale da Cl-Compagnia delle Opere-movimento economico e politico. Ha addirittura minacciato di dimettersi e di tornarsene in Spagna: vedremo chi vincerà, tra l’erede spirituale di don Giussani e il presidentissimo dalle vacanze pericolose.


Quel Gesù di Nazareth che non ci pensò un minuto a scacciare con forza i mercanti dal tempio di Gerusalemme e che sosteneva l’impopolare parere secondo il quale non era possibile servire a due padroni, Dio e mammona, che cosa penserebbe oggi se sapesse che proprio coloro che si dichiarano i suoi epigoni non solo accolgono a braccia aperte nei propri templi mercanti di ogni genere (compresi quelli senza scrupoli), ma sembrano anche devoti del dio denaro?

Paolo di Tarso che definiva l’amore per il denaro «la radice di tutti i mali» e il grande dottore della chiesa Tommaso d’Aquino che, chiosando il detto paolino, sottolineava come il cristiano dovesse «desiderare il possesso delle ricchezze in quanto necessarie alla vita» e non superare assolutamente questa misura, che cosa penserebbero se potessero essere edotti del “libero pensiero” della chiesa cattolica attuale in merito alle questioni finanziarie? ... (Anna Rita Longo)